A proposito di corsa in montagna

Agli appassionati di montagna non sarà sfuggita la notizia che il sindaco di Saint Gervais les Bains, località francese ai piedi del Monte Bianco, ha emanato un’ordinanza che ha fatto un po’ discutere: per poter salire in vetta sarà obbligatorio essere muniti di un equipaggiamento di base (vedi questo link). Abbigliamento e attrezzatura minima (nello specifico: berretto, occhiali da sole, maschera da sci, crema solare, giacca calda o 'guscio' in gore-tex, pantaloni da montagna e copri-pantaloni, scarponi da alpinismo con attacco per ramponi, ramponi regolati sugli scarponi indossati, imbragatura e kit per l’uscita da crepacci, corda, piccozza, GPS o bussola e altimetro) in opposizione al sempre maggiore numero di “skyrunners” che, muniti solo di scarpette da trail, tutina, cronometro e micro-zaino, sfidano il proprio corpo e la Montagna, in barba alle elementari norme di buonsenso e di prevenzione del rischio. In effetti sembrerebbe che gli interventi del soccorso alpino che coinvolgono questi atleti siano in aumento. Non ho trovato dati e numeri che lo confermino, ma il sindaco avrà sicuramente avuto dei buoni motivi per prendere questa estrema decisione. Non dobbiamo dimenticare che il Monte Bianco supera i 4800 metri di quota: i pericoli oggettivi della montagna qui si amplificano.
Evidentemente  in questo periodo si è diffusa la moda della corsa in montagna e questa ha attecchito anche tra neo-sportivi che in montagna non sono mai stati se non alla festa degli alberi alle elementari. Potrei sbagliarmi ma, vedendo chi indossa la tutine sulle cime dove vivo, lo affermo con pochi dubbi. Ovviamente sto semplificando e generalizzando ma l’obiettivo di questo post non è quello di esprimere giudizi nei confronti di persone, ma nei confronti di un modo di approcciarsi alla montagna pericoloso e, a mio vedere, irrispettoso. Non condanno questo sport in sé, io stesso lo pratico saltuariamente, senza nessuna ambizione. Spesso corro in montagna semplicemente perché facendo così posso raggiungere luoghi distanti, che altrimenti non riuscirei a vedere in una giornata. Mi considero abbastanza allenato e in base al mio stato di forma so regolare il mio sforzo, per evitare incidenti. Cerco comunque di avere un equipaggiamento “prudente” cioè me ne frego se pesa un po’ di più ma ci tengo ad avere il necessario per affrontare semplici imprevisti. E’ proprio questo però che non vedo nel mondo degli amanti del trail: la prudenza. Sembra che gli unici accessori fondamentali siano cronometro e telefonino, per l’immancabile selfie. Lo so, sto virando verso una supercazzola da integralista, quindi faccio un passo indietro. Viva i selfie in cima alla vetta. Riparto. Oltre all’orologio per controllare di non fare tardi e il telefonino per le emergenze, l’altro accessorio fondamentale è la calzatura. Rigorosamente bassa e studiata per il trail. In realtà il grip di queste scarpe può fare concorrenza a quello degli scarponcini da montagna ma, proprio perché si tratta di scarpette basse e leggere, non forniscono un’adeguata protezione della caviglia e del piede in caso di pietraie o in presenza di neve. Anzi, sulla neve possono essere proprio pericolose. Poi zainetto con borraccina o camelback, barretta energetica, antivento superleggero. Stop. Su, sfegatati dei trail, provate a dire che non è così.
Ma non mi nascondo, devo fare un’ammissione di colpa, mi è capitato di fare la stessa identica cosa, in alcune circostanze sono salito di corsa con equipaggiamento “da prestazione” anche in posti “molto brutti”. E sempre, tornando a casa, mi sono ripetuto: “Gabriele sei un deficiente”.
Ma cosa spinge alla prudenza? Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non è l’ignoto o la scarsa conoscenza a rendere prudenti, sono invece l’esperienza e la maggiore conoscenza ad attivare i campanelli d’allarme. La conoscenza di sé stessi, del tracciato, delle tecniche di orientamento, della morfologia del territorio, della meteorologia di montagna, delle previsioni meteo, della cartografia, dei rischi connessi all’alta quota e agli eventi meteorici-climatici precedenti, delle pratiche per la prevenzione del rischio. Queste competenze si acquisiscono andando spesso in montagna, osservando, andandoci con le persone giuste, leggendo, consultando manuali, ma soprattutto camminando in montagna, senza correre. Se siete degli amanti della corsa in montagna e non avete anche solo una di quelle competenze citate sopra, il mio consiglio è di rimandare la conquista della cima di 2500 metri. Non parliamo poi di quella di 3500 metri, lasciate perdere. A 4800 metri? Può andare bene se la vostra intenzione è quella di tentare il suicidio.
E voi mi direte: sono cavoli miei, il rischio mi piace e lo ricerco. Cavoli vostri un corno. Dal momento in cui qualche volontario o professionista si muoverà per venire a soccorrervi perché in difficoltà, il problema non è solo vostro. Infatti i comportamenti scorretti in montagna possono avere ricadute su tutta la comunità: mezzi e uomini occupati ad aiutare chi è in pantaloncini ascellari e magliettina in alta quota non possono essere disponibili per situazioni più urgenti che dovessero verificarsi.


Il mio invito quindi non è quello di non praticare questo sport, ma di non vivere la montagna solo correndo. Ciò può contribuire ad acquisire tutto quel bagaglio di conoscenze utili per aiutare il buonsenso, per capire quando è il caso oppure no, per essere prudenti senza mettere a rischio la propria incolumità e quella degli altri. A volte poi nemmeno la prudenza basta...
E ricordate, non basta essere atleti per andare in montagna.

Nel frattempo, l'ennesima tragedia: Un altro trailer muore sulla normale francese del Monte Bianco. L'ira del sindaco di Saint Gervais

Un articolo interessante di Enrico Martinet su La Stampa prende di striscio l'argomento: Una montagna di dilettanti invade ogni giorno le Alpi




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